IL PARENTE CHE LAVORA VA DICHIARATO

L’imprenditore che impiega il fratello o un parente stretto senza averlo iscritto nel libro matricola, paga la sanzione per il lavoro nero.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 9195 del 6 Maggio 2016 ha, infatti, sancito che lo stretto legame familiare e la dichiarazione del prestatore sono insufficienti a far presumere la gratuità della prestazione.

Il Collegio di legittimità ha chiarito quando la prestazione di un parente stretto possa essere considerata gratuita. In sentenza sul punto si legge che per negare che le prestazioni lavorative svolte nell’ambito di un gruppo parentale diano luogo a un rapporto di lavoro subordinato, occorre accertare l’esistenza di una partecipazione costante dei vari membri alla vita e agli interessi del gruppo, ossia uno stato di mutua solidarietà e assistenza, dovendo in difetto di ciò, specie quando le prestazioni lavorative siano svolte al di fuori della comunità familiare, escludersi l’ipotesi del lavoro gratuito, la cui presunzione, peraltro, non opera quando i soggetti non sono conviventi sotto il medesimo tetto ma in unità abitative autonome e distinte.

Infatti, dice ancora la Corte, l’impresa familiare, per il carattere residuale emergente dall’incipit dell’art. 230-bis cod. civ., concerne l’apporto lavorativo all’impresa del congiunto che non rientri nell’archetipo del lavoro subordinato o per il quale non sia raggiunta la prova dei connotati tipici della subordinazione. Sicché l’ipotesi del lavoro familiare gratuito resta confinata in un’area limitata.

Pertanto, qualora un’attività lavorativa sia stata svolta nell’ambito dell’impresa, il giudice di merito deve valutare le risultanze di causa per distinguere tra lavoro subordinato e compartecipazione all’impresa familiare, escludendo, comunque, la gratuità della prestazione per solidarietà familiare.

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